“Per l’applicazione dell’Arte della Pranopratica o Bioenergeutica AIFEP”
Francesco Racanelli è nato a Sannicandro di Bari il 27gennaio 1904.
Trascorse l’infanzia e l’adolescenza aiutando suo padre a lavorare la terra. Intanto spesso da solo, studiava e superando coraggiosamente le molte difficoltà, riusciva a conseguire la laurea in Giurisprudenza.
Accortosi di possedere personalissime qualità terapeutiche, cominciò a curare malati fisici e psichici con brillanti risultati. Subì cinque processi per esercizio abusivo della professione finché nel 1935 ottenne la laurea in Medicina. Visse a Firenze in Via Carnasecchi, 17, dove un giorno per settimana ricevette gratuitamente i malati.
Morì nel 1978 ed è sepolto all’Isola del Giglio.
“Poiché la malattia è nata con l’uomo, anche il tentativo di cure e la stessa medicina, nasce con lui”
Uomo unico ed esemplare nella medicina alternativa, ma anche in quella ortodossa,
dotato di eccezzionalissimi poteri naturali, esercitò la sua “arte” senza mai nulla chiedere o accettare.
Fu denunciato più volte, ma imperterrito continuò a guarire la gente. Visse e morì in povertà.
Francesco RACANELLI (1904-1978), che scopri da ragazzo di possedere nelle mani quella che poi lui stesso chiamò nei suoi importanti libri “forza della medicina bioradiante”, fu un perseguitato.
Ancora ragazzo guariva con l’imposizione delle mani gli animali. Andando a Firenze, dalla terra che lo aveva visto piccolo contadino, si accorse di poter guarire anche gli uomini. Lo fece, senza mai nulla chiedere o accettare, vivendo in povertà.
Denunciato per abuso della professione medica, si laureò in giurisprudenza, si difese da solo e si fece assolvere. Ma voleva continuare a guarire e lo fece: seguirono sette anni di persecuzioni, con ben cinque processi.
In quel periodo, difendendosi e facendosi assolvere – soprattutto grazie alle testimonianze di chi dovevano essere, secondo l’accusa, i suoi accusatori, ma che erano i malati da lui guariti – studiò medicina, si laureò, scelse le branche più difficili, addentrandosi sempre più nel sapere, sino a diventare uno dei più importanti e ricercati scienziati e relatori ai consessi medici internazionali.
Ma l’esempio di Racanelli, oggi purtroppo scomparso, mentre
deve spronarci allo studio e alla ricerca nel confuso mondo della medicina alternativa, deve anche spronarci per l’altra strada da lui sempre seguita: la condanna spietata e dura di quanti, guaritori improvvisati, vendono fumo e illusioni, speculando sul dolore.
Oggi la medicina alternativa è di moda, come fatto evasivo e come ultima speranza, soprattutto, per la delusione che viene non solo dalla dogmatica medicina ufficiale, ma da tutta la scienza ufficiale, consegnatasi al potere, al servizio di pochi, contro l’uomo. Mentre la scienza dovrebbe stare dalla parte dell’uomo Queste speranze, accanto a fatti concreti, portano a gravi speculazioni. Si riabilitano giustamente terapie come l’agopuntura e l’omeopatia, che hanno radici storiche, popolari, spirituali, tradizionali e religiose. Le erbe, non sempre in modo onesto, sono usate come scelte alla farmaceutica spicciola e senza scrupoli. Altre branche non meno interessanti stanno conquistando il loro giusto posto in una realtà futura, che sarà costruita dagli “uomini liberi”. Ma a tutto questo si mescolano gravi speculazioni mentre il dubbio si agita giustamente, nei casi più esotici, come quello dei guaritori filippini. La polemica, su questi ultimi, è tra le più accese. Si sono organizzate tournee di guaritori in Europa e negli Stati Uniti, mentre settimanalmente voli speciali raggiungono le Filippine con ammalati pieni di speranza. Si è parlato di speculazione e di trucco. Personalmente, che del fenomeno ci siamo occupati tra i primi, riteniamo che una condanna notevole non sia possibile. È nostra opinione che esista si speculazioni e trucchi, ma su un fenomeno concreto e vero. Che il fenomeno filippino, sradicato dalla sua terra, dalla sua tradizione, dalle sue radici anche spirituali, per essere commercializzato, perda quella forza che possiede. Come avviene per tutte le cose che si rendono impure, con certe contaminazioni.
Nel ricordo di Racanelli, uomo unico ed esemplare nella storia della medicina ortodossa ed eterodossa, – perché le rappresentava insieme – sollecitiamo una maggior presa di coscienza di un grande problema sempre aperto e che potrebbe portarci a nuove frontiere nella lotta contro il dolore, non dimenticando che questa lotta deve compiersi anche contro chi sul dolore specula, in modo ortodosso o meno.
Nel silenzio più assoluto, misterioso nel gran clamore che accompagnano oggi ogni futilità, è morto Francesco Racanelli.
Nel modo e nel silenzio che preferiva. È stato il primo guaritore italiano diventato anche medico, e dei più illustri.
Egli trovava nella malattia qualcosa di disarmonico che, con parole improprie, potrebbe definire mancanza d’amore. Lui di amore ne aveva tanto, anche se meno di quanto ne desse, con grande semplicità.
Noi amici lo chiamavamo Ciccio e lui rispondeva alle lettere firmandosi Raca. Non era uno pseudonimo o qualcosa di simile. Era la fretta. Il tempo non gli apparteneva, era dei suoi malati, degli esseri privi di amore, e quindi di equilibrio.
Nella clinica dove Racanelli teneva le sue terapie di gruppo, c’era anche un ambulatorio, dove il medico-guaritore riceveva, e c’era una stanza d’aspetto. Tutto molto modesto, semplice ma pulito. Alle pareti della sala d’attesa, erano appesi dei cartelli recanti frasi del Vangelo, di Padre Pio, o tratte da antiche saggezze esoteriche, sempre in chiave cristiana.
Quando il paziente si presentava da lui, Racanelli lo ascoltava, nel suo studio nudo.
Dietro la scrivania aveva due sole foto, accanto a un crocefisso:
la riproduzione di un ritratto di Frate Francesco e una immagine di Padre Pio. Quando entrava in azione, Racanelli faceva spogliare il paziente, lo adagiava su un lettino e lo avvolgeva in un lenzuolo di lino, il tessuto della protezione magica e sacerdotale.
Poi si avvicinava alla finestra, chiudeva gli occhi, alzava le mani, puntando le palme al sole, la grande fonte di energia. Restava immobile alcuni minuti, poi si avvicinava al paziente e passava le mani sul suo corpo, soprattutto sul plesso solare e sulla fronte.
Il paziente sentiva un gran calore e una specie di corrente magnetica scorrergli nelle vene, qualcosa che lo rilassava, ma che non capiva. Le sedute erano più di una e, nei casi più gravi, Racanelli apriva le porte della sua clinica a chi ne aveva bisogno: non chiedeva se uno era povero o ricco, se era
cattolico o ateo. In tutti riconosceva Cristo. Incontrai per la prima volta Racanelli nella sua clinica in via Carnesecchi, a Firenze. Lo trovai mentre zappava la terra, in giardino, sudando felice, fermandosi di tanto in tanto a guardare il sole.
E al sole offriva le proprie mani, per riceverne vita e calore, da trasmettere agli altri. “Sono nato contadino”, mi spiegò, “e debbo restarlo. Appena posso, lavoro la terra, perché è dalla terra che mi viene la forza di trasmettere il bene. Ogni anno, passo almeno un mese all’Isola del Giglio, alla Lampara, a
lavorare i miei campi. Se smettessi, ne morirei. Ma vorrei proprio morire da contadino. Era nato nel 1904 a Sannicandro di Bari. Ragazzino, soffriva nel vedere il dolore e la stanchezza degli animali. Prese ad accarezzare buoi e cavalli. E si accorse che le proprie mani trasmettevano un calore e una forza. Gli animali guarivano. Si sparse la voce, vennero altri contadini, sempre da più lontano, portando le bestie. Ciccio le toccava, quelle guarivano. Per studiare, si trasferì a Firenze, dividendo il suo tempo, nel freddo di una soffitta, tra libri rabberciati e la fame.
Quando vide che i suoi amici e i suoi vicini si ammalavano e soffrivano, prese a toccarli come aveva fatto con gli animali che amava tanto. Le sue mani guarivano anche gli uomini. Ma continuò a fare la fame, anche quando la voce si sparse, e vennero in tanti, da lui. Perché non chiese mai nulla. Lo studente povero che guariva senza medicine e senza farsi pagare diede fastidio a qualcuno. Fu denunciato per esercizio abusivo, della professione medica.
Ciccio, che non aveva soldi per pagare la causa, trovò il tempo di laurearsi in giurisprudenza e difendersi da solo. La tesi era “l’uomo e il diritto”, e trattava, sullo spunto della sua esperienza personale, delle sue prime teorie che in seguito sarebbero state esposte ai congressi internazionali di medicina, dibattute e poi accolte da scienziati che giudicavano Ciccio un maestro. Come avvocato, riuscì a farsi assolvere. Ma non poteva continuare a guarire, senza essere medico. Si buttò di nuovo sui libri, si laureò in medicina, non senza aver subito prima del traguardo una vera persecuzione durata sette anni, con ben cinque processi, che sempre vinse. Una volta laureato, si specializzò nelle branche più ardue, e contemporaneamente prese a curare con l’imposizione delle mani, col metodo che nei suoi libri poi definì della “medicina bioradiante”.
Un disco o semplice, che si concludeva con la frase che spesso mi ripeteva: “Ogni medico, ogni uomo, solo che lo voglia e lo faccia con amore, può ottenere ciò che faccio io, e che non è un mio merito, perché mi viene da Dio”. Dovette sempre lottare su due fronti. Contro i baroni della medicina, gli speculatori dell’industria farmaceutica, i cinici ufficiali del
dolore.
E contro quelli di contrabbando, i ciarlatani, gli speculatori, anche oggi tanto in auge, grazie soprattutto alla faciloneria della televisione e il sensazionalismo di certa stampa. Era seduto accanto a me, a Milano, qualche anno fa, quando fu presentato per la prima volta a un ristretto gruppo di studiosi, un documentario sul fenomeno dei guaritori filippini. Ciccio espresse le sue dure riserve, più che giustificate, vista la speculazione che ne è seguita e che ancora oggi prospera su questi esotismi.
Ciccio non cercava nei grandi misteri, nelle mode, nei miracoli, ma sempre e solo nella terra e nell’uomo. Ormai vecchio, viveva con poco, francescanamente, e non si faceva pagare. Pensava ai poveri e se qualche volta veniva un cliente ricco, lo pregava di pensare agli altri, ai poveri che affollavano il grande stanzone della sua clinica. Dormiva in una stanza da carcerato. Un letto bianchissimo, un crocefisso al muro e due sole immagini. San Francesco e Padre Pio da Pietrelcina. Di tanto in tanto qualcuno gli ricordava di avere una moglie. Una volta, durante un’intervista alla quale ero presente, un’inviata di Newsweek gli chiese perché non si era sposato. Forse per stare più vicino ai suoi malati? Ciccio si batte una mano sulla fronte: “È vero che ho una moglie, non mi vede da quindici giorni.
Senta, finiamo l’intervista domani, sarà meglio che corra a casa L’ultima volta che ho visto Ciccio è stato a un congresso a Firenze. Mentre parlavo davanti a duemila persone, lo vidi, in platea, bianchissimo, come fosse isolato dalla folla. Alzò lentamente una mano. Smisi di parlare, per rispondere al saluto. Ci incontrammo nella serata, nel corridoio. Portava una borsa di plastica, da supermarket, abbastanza pesante. “Senti”, mi disse, “facciamo un cambio. Tu mi dai il tuo ultimo libro, con la dedica, e io ti do il mio”. E prese a frugare nella borsa, fino a quando non rialzò il capo e mi guardò con espressione stanchissima.
“Non ho una penna per la dedica …”. La cercammo un po’, nella calca di congressisti e pubblico, ma poi lui rinunciò: “Facciamo domani, con più calma, domani. Sei qui, no? Facciamo domani …” E non volle accettare il mio libro, anche quando protestai che il suo poteva mandarmelo con tutta calma. “Domani, domani, ciao…”. Non ci fu un domani. Non ci vedemmo più. Un giorno, per caso, seppi da un collega di Firenze che Ciccio era morto. In silenzio. Alla Lampara dell’Isola del Giglio, sulla sua terra, come un contadino, come lui aveva desiderato. Ha fatto di tutto perché noi amici non lo sapessimo. Non solo per non darci un dolore, ma per lasciarci l’illusione che lui, da qualche parte, c’era sempre. Ci saremmo domandati della sua assenza, in qualche congresso, per aggiungerla alle tante precedenti, dovute al suo lavoro. E avremmo continuato, come se lui esistesse. Perché l’illusione che un uomo come Ciccio ci sia sempre, da qualche parte, è il minimo che possiamo pretendere dalla vita e anche dalla morte.